Ponte Marchi: treno deragliato nel 1934 (fotografia storica)

“Ponte Marchi 1934” (SUL RETRO)
SUL RETRO SCRITTA A MATITA: “Ponte Marchi 1934” Un treno deragliato sul ponte Marchi. Diversi uomini attorno alla locomotiva e altri sul fianco del treno sui binari.
Cm 18,3 x 13
Dall’Archivio Fotografico Digitale della Libera Università della Terra e dei Popoli.
Provenienza e proprietà: Archivio del XX secolo (Latina).

Sambuco lebbio e rovi di more

In Agro Pontino può capitare di incontrare piante di sambuco lebbio, chiamato anche ebbio o sambuchella (Sambucus ebulus). Il sambuco lebbio ha foglie imparipennate, lanceolate e seghettate. Non si deve confondere con il sambuco comune (Sambucus nigra). Mentre quest’ultimo è un vero e proprio albero, l’ebbio si presenta come un cespuglio di uno o due metri. Inoltre i frutti del sambuco comune pendono verso il basso, mentre le bacche dell’ebbio tendono verso l’alto (salvo poi ripiegare verso il basso a causa del peso, ma mai afflosciarsi come nel caso del sambuco comune). A differenza di quelle del sambuco buono, le bacche dell’ebbio sono velenose, vengono usate solo per inchiostri e coloranti.

Spesso l’ebbio cresce tra i rovi di more (Rubus fruticosus), le sue bacche da lontano possono confondersi per il colore con le bacche di more. E’ quindi importante che soprattutto i bambini imparino a notare la differenza tra le more e le bacche del sambuco lebbio.

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A sinistra sambuco lebbio, in alto a destra more

 

 

Orto-giardino fitoalimurgico (farinello e portulaca)

Prosegue la progettazione e proseguono i sopralluoghi per l’orto-giardino fitoalimurgico presso la Libera Università della Terra e dei Popoli.
Qui sotto in fotografia farinello (Chenopodium album) e abbondante portulaca (Portulaca oleracea, nota dalle nostre parti con il nome di “porcacchia”).

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Lo zuccherificio di Littoria (cartolina storica)

Sullo sfondo di un cielo nuvoloso, gli edifici dello zuccherificio di Littoria. Sul piazzale antistante un’autovettura parcheggiata.
16/09/1940 (data autografa e timbro di spedizione)
Ed. E. Verdesi – Roma
Proprietà Riserv. Fascio Littoria
10,5 cm x 15 cm
Dall’Archivio Fotografico Digitale della Libera Università della Terra e dei Popoli.
Provenienza e proprietà: Archivio Libera Università della Terra e dei Popoli (Sermoneta).

Sopralluogo al Lago Muti (Sezze)

Giovedì 18 giugno 2020 è stato effettuato un sopralluogo al lago Muti (Sezze) a cui ha partecipato anche Antonio Saccoccio, presidente della Libera Università della Terra e dei Popoli. Il lago Muti si trova a pochi chilometri dalla sede della Libera Università della Terra e dei Popoli ubicata in località Cotarda e, grazie al lavoro svolto da Roberto Vallecoccia e dall’Associazione Memoria Storica di Sezze, si cercherà di mettere in atto un’interazione tra i due siti. Pubblichiamo il resoconto del sopralluogo.

Giovedì 18 giugno 2020 è stato effettuato un sopralluogo al lago Muti (Sezze). Erano presenti Giorgio Stagnaro (Direttore operativo di Acqualatina), Antonio Di Prospero (Vicesindaco del Comune di Sezze), Giancarlo Siddera (Assessore al patrimonio, all’ambiente e alle attività produttive del Comune di Sezze), Diego Mantero (Dirigente presso la Direzione regionale Capitale naturale, Parchi e Aree Protette della Regione Lazio), Roberto Vallecoccia (Presidente dell’Associazione Memoria Storica di Sezze), Antonio Saccoccio (Coordinatore tecnico scientifico dell’Ecomuseo dell’Agro Pontino), Antonio Pisterzi (Responsabile Rapporti con la Pubblica Amministrazione di Acqualatina), Roberto Petrocelli (Acqualatina). Obiettivo dell’incontro: mettere in campo le strategie migliori per recuperare, gestire e valorizzare il sito.

Dal 2011 l’Associazione Memoria Storica di Sezze inizia a collaborare con il vecchio direttore di Acqualatina Andrea Lanuzza e l’amministrazione Campoli per portare all’antico splendore l’area. Dal 2019 il progetto di valorizzazione è sostenuto anche dall’Ecomuseo dell’Agro Pontino, che, avendo tra i propri principali obiettivi lo sviluppo locale autosostenibile, guarda con grande attenzione al recupero di una zona di grande rilievo storico, naturalistico ed energetico. Da qualche mese, grazie all’interessamento della Regione Lazio, e in particolare di Ernesto Migliori (Responsabile settore Tutela e Valorizzazione dei paesaggi naturali e della geodiversità per la Regione Lazio e per l’Ecomuseo dell’Agro Pontino), del dirigente Diego Mantero, dell’Ecomuseo dell’Agro Pontino e dell’Ass. Memoria Storica di Sezze, si è avviato l’iter per inserire la zona umida tra i Monumenti Naturali del Lazio.

Il lago Muti prende il nome, come il vicino lago Pani, dai suoi vecchi proprietari e si può osservare in una curva del tratto dismesso della strada regionale 156.

Il sopralluogo inizia aprendo faticosamente un varco tra arbusti, rovi e canne, a testimonianza dell’attuale stato di abbandono del sito. Si intravede il lago Muti parzialmente coperto da ninfee; giunti all’impianto, ci accoglie un grosso cervone (pasturavacche) che si sta insinuando lentamente sotto un ponticello di legno, a pochi centimetri dall’acqua. Si entra nell’impianto guidati da Roberto Petrocelli. Si notano subito le ampie vasche di carico e più in basso le turbine del vecchio impianto idroelettrico, non più in funzione.

Le due macine furono in funzione fino al 1911, anno in cui il nuovo progetto della Società Elettrica Laziale fu affidato a Raffaele Lenner, progetto che a causa della guerra venne portato a termine solo nel 1922. Quindi Sezze nel 1922 aveva a disposizione 40Kw elettrici più acqua fornita dalle pompe a pistoni. L’impianto per la produzione di energia elettrica fu impiegato per l’illuminazione di molti edifici della città di Sezze prima di essere abbandonato (anni Settanta).

Si prosegue la visita degli altri locali interni, tutto sommato in buone condizioni, in cui si trovano anche alcuni arredi mai utilizzati. Questi locali e gli arredi saranno utili in futuro per le attività di ricerca ed educative, che si intende avviare una volta recuperato il sito.

Tornati all’aperto, Roberto Vallecoccia fornisce informazioni sulla zona umida circostante, che comprende anche il più esteso lago Pani e presenta un notevole interesse naturalistico dal punto di vista botanico (ninfee, calle, luppolo etc.) e avifaunistico (gruccione, martin pescatore, airone reale e airone cenerino, biancone).

In seguito è iniziato il confronto tra i partecipanti sui prossimi passi da intraprendere per il recupero dell’area. L’amministrazione comunale, la Regione Lazio e Acqualatina sono intenzionati a recuperare l’area esterna e i locali interni. Dello stesso avviso sono l’Ass. Memoria Storica e l’Ecomuseo. Il Comune di Sezze si è impegnato a rendere agibile la zona esterna per poi consegnarla in gestione all’Ass. Memoria Storica di Sezze. La Regione Lazio, nelle persone di Ernesto Migliori e Diego Mantero, proseguirà lo studio avviato per inserire la zona umida tra i Monumenti Naturali del Lazio. Si avvicina il momento in cui l’area dei laghi Muti e Pani tornerà all’antico splendore.

Antonio Saccoccio e Roberto Vallecoccia

 

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Qualche domanda a Hugues de Varine su ecomusei, educazione e Paulo Freire (a cura di A. Saccoccio)

(Antonio Saccoccio) Caro Hugues de Varine, io credo che l’aspetto educativo sia fondamentale nel processo ecomuseale. Anche tu hai parlato molto spesso di questo. In particolare, citi frequentemente il pensiero pedagogico di Paulo Freire. Lo chiami “il mio maestro”. Quando e come è nata questa tua predilezione?

(Hugues De Varine) Tra il 1970 e il 1974, ho partecipato a titolo volontario e militante alla creazione e allo sviluppo di una ONG internazionale d’iniziativa francese, chiamata INODEP (Istituto Ecumenico per lo Sviluppo dei Popoli), fondata da alcuni missionari cattolici e protestanti nello spirito dell’enciclica Populorum Progressio e di uno dei suoi redattori Louis-Joseph Lebret. Noi abbiamo scelto come presidente Paulo Freire, che era al tempo in esilio in Europa e consigliere del Consiglio Ecumenico delle Chiese a Ginevra. Lui ha accettato e durante gli anni seguenti non solo ha presieduto formalmente l’INODEP, ma ci ha anche insegnato le sue idee e i suoi metodi. E naturalmente io ho letto i suoi libri tradotti in francese. Ci ha aiutato a concepire gli obiettivi e i programmi dell’INODEP, in America Latina, in Africa e anche in Asia. Poi, quando io ho lasciato l’ICOM che guidavo per andare a lavorare in provincia, ho lasciato l’INODEP dove avevo presieduto l’associazione francese che gestiva il tutto. Nel 1972, quando preparavo la Tavola Rotonda di Santiago, ho domandato a Paulo Freire se avrebbe accettato di essere il principale relatore dell’incontro e lui ha accettato. La mia idea era che riflettesse sul museo come aveva riflettuto sulla scuola. Ma il governo dittatoriale brasiliano ha posto il veto. Poi, ho rivisto Paulo Freire un’ultima volta, un po’ a lungo, da lui, a San Paolo nel 1992. E poi, avendo lavorato molto in Brasile su progetti comunitari e patrimoniali, ho ritrovato le sue idee che sono laggiù molto spesso messe in pratica in numerosi ambiti. Attualmente, sono in corso molti master o tesi in museologia che prendono spunto dalle idee di Paulo Freire.

 (A.S.) Tu hai appreso dal pensiero di Paulo Freire il concetto di “cultura viva”. In particolare, con Arlindo Stefani, uno degli allievi di Paulo Freire, hai elaborato una grandiosa utopia intitolata “cultura viva e sviluppo”. Di cosa si tratta?

(H.d.V.) È un’idea che abbiamo avuto, Arlindo e io, in Francia alla fine degli anni Settanta, per sperimentare metodi di sviluppo locale partecipativo, e che abbiamo applicato a diversi progetti sul territorio, in particolare nelle case dei lavoratori immigrati e nelle case popolari. Si trattava di partire dall’osservazione partecipata della vita quotidiana, dalle persone stesse, per portarle a presentare proposte concrete e applicarle nella loro vita quotidiana e nei territori. Ciò che noi chiameremmo in portoghese “capacitação” o in inglese “empowerment”. Si trattava di far prendere coscienza del sapere di ciascuno in un approccio collettivo o condiviso, per prendere quindi fiducia nella loro capacità di risolvere problemi reali ma semplici, poi spostarsi progressivamente verso la soluzione di problemi sempre più complessi. E un processo lungo e lento, molto impegnativo in termini di fiducia, competenza linguistica, con pochissimi mezzi tecnici e molto spesso senza alcun supporto da parte delle autorità. E un’utopia realistica, poiché abbiamo mostrato che funziona, ma nessuno ci crede perché oggi bisogna andare sempre più veloci e ottenere risultati. Tutto questo sembra un po’ come fare dell’omeopatia sociale.

(A.S.) Per coloro che si occupano di ecomusei, è molto importante distinguere l’educazione bancaria dall’educazione liberatrice. Perché?

(H.d.V.) Il museo tradizionale, come la scuola, dalla primaria alla superiore, mira a imporre delle conoscenze, con metodi più o meno sofisticati (detti “pedagogici”), ma procedendo sempre dall’alto in basso. E un modo per garantire ai visitatori il riconoscimento di oggetti, opere, documenti, tradizioni, conoscenze che sono state scelte e definite da alcuni studiosi, portatori delle discipline accademiche (storia dell’arte, storia, archeologia, etnologia, scienze della terra, tecnologie etc.). Per la maggior parte dei visitatori è una forma di assimilazione culturale alla cultura alta. Come l’apprendimento della lettura o della scrittura a scuola, è importante per garantire una sorta di minimo vitale, ma la cultura “generale” così comunicata è essenzialmente morta, ad eccezione di una certa percentuale di visitatori che hanno ereditato o acquisito codici e chiavi, e che hanno il tempo e i mezzi per farli funzionare. D’altronde, le statistiche mostrano che meno del 10% della popolazione ha accesso a questi saperi, anche solo perché gli altri non ne sentono il bisogno. Restano i turisti che costituiscono la grande massa del pubblico dei musei e dei siti storici, ma questa è un’altra storia, che ha a che vedere piuttosto con curiosità e piacere. Questo è il motivo per cui si può chiamare questa museologia “bancaria”: accumula conoscenze, impressioni ed emozioni su “conti culturali” individuali che sono più o meno dormienti. Solo un numero molto limitato di conti produrrà (creerà o diventerà creativo).

Il museo liberatorio (ecomuseo, museo comunitario, etc.) procede in modo differente. Parte dalla condizione delle persone, nella loro comunità di vita e/o di lavoro, sul loro territorio, dai loro saperi, dalle loro credenze, dalle loro capacità d’immaginazione, d’iniziativa, di cooperazione, per produrre sviluppo sociale, culturale, ambientale, economico. Il patrimonio non è un obiettivo, ma un materiale, uno strumento, un capitale che la comunità impara a conoscere, ad apprezzare per le sue diverse qualità, e a utilizzare o trasformare, per rispondere ai suoi differenti bisogni, collaborando alla pari con le autorità locali. Questa è l’intera questione della sussidiarietà. Conosco molti ecomusei italiani che hanno già ottenuto risultati notevoli rispettando, a volte senza saperlo ma spontaneamente, questo genere di metodi.

(A.S.) Hai affermato che lo sviluppo sostenibile esige una partecipazione consapevole e informata dei cittadini. Ma la democrazia rappresentativa abitua i cittadini a delegare e non a partecipare. Come può essere risolto questo problema ? È per te un problema politico o educativo?

(H.d.V.) È essenzialmente politico e lo si comprende meglio quando si osservano alcuni musei realmente comunitari, come in America Latina, o alcuni musei autoctoni/indigeni in Brasile o in Canada. Esistono solo due modi per raggiungere uno sviluppo locale sostenibile, quindi necessariamente partecipativo, cioè con una co-decisione: o il potere (locale) accetta di essere condiviso con le forze vive della popolazione (la comunità); o la comunità stessa conquista il diritto di condividere la decisione attraverso la negoziazione, la manifestazione o la sanzione elettorale. Il lavoro educativo mira a condurre la popolazione/comunità: 1) a diventare capace di pensare da sola, ad avere fiducia in se stessa, ad appropriarsi del proprio patrimonio e 2) a prendere l’iniziativa e ad affermarsi come soggetto-attore-partner del proprio sviluppo.

(A.S.) A proposito degli ecomusei realmente comunitari dell’America Latina, in cosa si differenziano dagli ecomusei europei?

 (H.d.V.) Sono iniziative prese dalle comunità, spesso con l’aiuto di un facilitatore scelto dalla comunità, che è stato formato. Si può consultare: Cuauhtémoc Camarena y Teresa Morales, Manual para la creación y desarrollo de Museos Comunitarios, Fundación Interamericana de Cultura y Desarrollo, 2009, La Paz (Bolivia).

(A.S.) Leggendo i vostri testi e quelli di Paulo Freire, io ho avuto un’idea che oso condividere con te in modo semplice (forse troppo semplice, quasi un sillogismo). L’educazione nelle scuole è generalmente bancaria. Coloro che hanno ricevuto un’educazione bancaria tendono a proporre una museologia bancaria. In America Latina una certa parte della popolazione non si è adattata ai processi bancari. Questo si ha perché la scolarizzazione è meno diffusa che in Europa? O forse a causa di condizioni socio-economiche e politiche più difficili? O forse semplicemente grazie ad alcuni pensatori libertari come Freire che hanno proposto un’educazione liberatrice? O ci sono motivazioni differenti?

 (H.d.V.) I musei comunitari, i musei indigeni o autoctoni, e anche alcuni ecomusei nascono in luoghi in cui l’educazione formale pubblica è poco sviluppata (l’inizio della primaria) e soprattutto dove la posta in gioco è politica: relazioni con i poteri centrali, problemi dei territori, volontà di salvaguardare alcune forme di cultura o di culto che rischiano di essere distrutte dal “progresso”, etc. Praticamente sono le stesse popolazioni che sono state oggetto delle esperienze di Paulo Freire con i contadini del Nord-Est brasiliano (vedi: L’educazione come pratica della libertà). Questi musei sono dunque strumenti politici.

(A.S.) Nel capitolo “Conoscenza del patrimonio” del tuo libro Le radici del futuro, ci inviti a riflettere sul «concetto di complessità del patrimonio culturale, specchio della complessità della comunità e della sua cultura viva».Tu scrivi che «ogni elemento del patrimonio culturale è frutto di una complessa alchimia tra gli individui, il loro ambiente, le interazioni con gli altri individui e altri ambienti, le influenze esterne». Sono dichiarazioni di un considerevole interesse, che mi ricordano il pensiero del sociologo e teorico della complessità Edgar Morin. Anche Morin è molto interessato alle questioni educative e adotta anche lui una prospettiva multidisciplinare.

 (H.d.V.) Non ho letto quasi nulla di Edgar Morin, soltanto alcuni articoli nei giornali (io non sono affatto colto e non ho una formazione universitaria). Io reagisco e scrivo sulle mie osservazioni e sulle mie pratiche e non posso confrontare le mie idee con quelle degli intellettuali. Alcune mie frasi possono sembrare profonde, tanto meglio, ma non è intenzionale…

 (A.S.) Un’ultima domanda. Nei tuoi saggi e articoli l’influenza del pensiero di Freire è evidente quando parli di trasformazione, di cambiamento. Quando un essere umano è ben educato (coscientizzato), è pronto a trasformare la realtà, non soltanto a cercare di conservarla così com’è. È anche un concetto politico, non è vero?

 (H.d.V.) Certamente. La realtà, come il patrimonio, è in costante trasformazione. Il patrimonio “decretato” (le collezioni dei musei, i monumenti e i siti classificati) è un tesoro ma è morto poiché si vuole preservarlo eternamente (?) per il suo valore universale (?). Il patrimonio vivo, come la cultura viva, evolve con noi, è utile, può scomparire, servire ad altro, mutare il proprio significato, persino perdere il proprio senso di patrimonio in seguito a cambiamenti nei gusti e nei bisogni di una nuova generazione. Prendersi cura del patrimonio non significa solo conservarlo intatto, si tratta di renderlo utile.

(traduzione dell’intervista originale in lingua francese del 03-05/08/2019)